L’animale nudo, la veste e la finzione. Per un’antropologia della moda e del trucco

martedì 15 marzo 2011

Truccato da Giacomo Pezzano alias Marked (per divina intercessione di Ossi)





Care fatine e fatini,
quello che vi propongo oggi è qualcosa di profondamente diverso dal solito. Il mio carissimo amico filosofo Giacomo mi ha fatto dono di un suo articolo (che ha scritto apposta per noi!), denso di riflessioni interessanti sulla dialettica tra l'uomo e il trucco, sul dialogo cioè tra l'animale sociale e la cultura del mascheramento tramite l'apparenza e l'inganno, veicolate appunto dal trucco e dalla moda. In parte provocatorio, offre notevoli punti di riflessione. Avete il mio benestare per subissarlo di domande, dissensi, curiosità, richieste di chiarimenti e approfondimenti, dai quali -per vostra sfortuna :-) - non si esimerà di certo! E naturalmente lo ringrazio sentitamente, anche a nome di Penny, per l'onore che ha tributato al nostro modesto esercizio mettendoci a disposizione tutta la sua dirompente energia filosofica. Eccolo a voi, buona lettura:

Le aporie della fame. Che cos’è un trucco? Che cosa significa truccarsi? Perché il trucco è qualcosa di così ambiguo, che da un lato ci fa affermare «dev’esserci un trucco» in senso negativo, ma che dall’altro lato ci fa apprezzare una persona o una macchina «truccata», o persino un bel «trucco di magia»? Parto apparentemente da molto lontano, rispondendo: perché l’animale umano è diverso da qualsiasi altro animale. La domanda sorge allora spontanea: «perché un animale umano è diverso da qualsiasi altro animale non umano»? Partiamo da questo: un essere umano ha fame, la sua natura dunque lo muove. C’è però qualcosa in lui, nella sua natura, che gli dice come muoversi? Ossia: c’è qualcosa in lui che gli dice esattamente che cosa è in grado di soddisfare la sua fame e come soddisfarla? No. Per questo l’uomo deve oggettivarsi, tentare dirigendosi verso il mondo, sperimentare, dunque esporsi al successo e al fallimento. L’uomo rischia, dopo l’azione deve retroflettersi per riflettere, per valutare e capire così se l’azione compiuta è stata in grado di soddisfare o meno il bisogno che l’ha mossa. Solo per questo esiste la storia: l’uomo deve dirigersi verso l’esterno per essere, trovare e realizzare se stesso, soddisfacendo i suoi «moti interiori». Restando nell’esempio di partenza: un essere umano ha fame, ma deve cercare di soddisfarla trovando il modo migliore, di per sé nella sua natura non c’è nulla che gli dica «cucina una torta con un amico» o «uccidi chi già ne possiede una», dovrà agire e solo in seguito potrà chiedersi se l’azione è stata soddisfacente (un’uccisione avrà forse soddisfatto la fame ma avrà generato un’insoddisfazione ben più profonda, mentre l’aver cucinato oltre ad aver soddisfatto la fame avrà anche generato la soddisfazione dell’aver compiuto un’azione comune in maniera produttiva e creativa). Certo, è evidente che sulla base delle esperienze pregresse un essere umano non deve ogni volta aspettare di aver già compiuto l’azione per rendersi conto se è l’azione adatta o meno, ecc. Il punto è però qui un altro: l’animale umano esiste, e l’esistenza è fatta di possibilità che richiedono un’attiva modulazione, l’uomo (da Sofocle a Hegel) deve cioè trovare la via e il modo di condurre la propria vita perché è di per sé privo di una via specifica e immediata figlia dell’indicare (weisen) da parte della natura – proprio per questo saggio (weise) è chi sa in ogni circostanza trovare l’adeguata via (Weise).


Tra abiti e abitudini. L’uomo è pertanto un animale culturale, che nella propria cultura ha anche il vestirsi, perché in-veste sul suo futuro: l’uomo è un animale che si veste, che dopo il peccato originale (peccato originario, perché è da lì che ha inizio l’uomo) si scopre nudo e bisognoso di coprirsi. Lo fa solo per vergogna, solo per il sopraggiungere del pudore, per il timore di essere sorpreso dall’altro in tutta la sua nudità, in tutta la sua esposizione, per scongiurare l’oggettivazione da parte dello sguardo altrui? No, l’indumento non è per l’uomo solo copertura e nascondimento, ma anche espressione, esposizione di tutta la varietà che lo contraddistingue, di tutta la ricchezza del mondo che si rispecchia nell’uomo: l’uomo in-dossa abiti perché si ad-dossa la responsabilità di condurre la propria esistenza, di istituire abitudini per vivere (habitus è tanto il comportamento quanto il vestito, e ogni com-portamento è sempre anche portamento, proprio come quello del modello che sfila fiero, sicuro e provocatorio). Ecco, allora, che appena nasce l’uomo, dopo il peccato, subito nasce la moda, l’esigenza di s-prigionare liberamente le proprie possibilità ancora im-prigionate, di dar corpo e figura alle proprie tendenze in modo in-tenzionale, anche tramite quelle vesti che esprimono la propria relazione con se stessi e con il mondo, con gli altri nel mondo: la moda è e-scrizione del corpo che si dà una forma tramite l’i-scrizione di un codice di significati visivi a tutti disponibili. La moda é modus con cui l’uomo si es-pone, in cui fa es-istere la sua capacità/necessita es-pressiva (con cui lascia essere il proprio essere come ek-stare: es-sistenza es-posta all’es-pressione), che l’esistenza vada modulata significa proprio che la moda contribuisce ad articolarne le possibilità espressive: l’uomo vive fuori di sé (è es-, ek), è (con Nancy) expeausition [exposition (esposizione) + peau (pelle)], la sua pelle é il punto di con-tatto con il mondo, il punto di con-taminazione e di con-giunzione, ciò che si con-trae solo perché poi si es-trae, perché opera un’es-plosione rifiutando ogni im-plosione. All’appuntamento con il mondo bisogna presentarsi belli, se-ducenti/at-traenti (in grado di condurre e trascinare verso di sé), affascinanti, forse anche solo stranianti, ma in qualche modo occorre comunque presentarsi: ecco la moda, estro-flessione del corpo che rifiuta l’intro-flessione perché è pelle-esposta, del corpo che si offre allo sguardo altrui e al proprio, che si offre all’altro offrendosi al mondo. La moda è espressione del bisogno di comunità, del fatto della comunità, dell’essere-in-comune, dell’essere di fronte allo sguardo altrui e del volersi pro-tendere verso l’altro per pre-tendere il suo sguardo, per farsi vedere e per guardarsi (il vestito è lo specchio esterno di se stessi ai propri occhi, e se certo l’abito non fa il monaco è però il monaco a fare il proprio abito, a scegliere che sia quell’abito e non un altro a rap-presentare se stesso nel suo presentar-si a se stesso, all’altro, al mondo). La moda non è un coprire sé, il proprio corpo, bensì uno s-coprire le proprie possibilità, le proprie tendenze, i propri desideri, uno s-coprir-si che lascia scoprire all’altro tutto ciò che appare come coperto: proprio come una maschera, che coprendo un viso non semplicemente nasconde ciò che resta sotto di essa, ma dà a vedere ciò che sta sulla sua superficie, come una maschera che lascia in-tendere a chi la osserva che essa rappresenta un’in-tenzione originaria, l’intenzione di esprimersi e di farsi osservare per essere meglio riconosciuti e capiti. Occorre essere almeno in due per essere umani (Kojève): la moda è il ri-chiamare l’altro a sé, è pro-vocazione nel senso originario, è cioè richiesta e-vocativa e in-vocativa di un riconoscimento reciproco (io che osservo te colgo te che osservi me: ri-conoscersi è rispecchiarsi l’uno nell’altro in un gioco infinito di rimandi ri-flessivi e ri-frattivi) che permette a sé e all’altro di essere sino in fondo, pienamente, umani.


Fingere per esistere. Solo l’essere che viene nudo al mondo e che si accorge di tale nudità può dunque provare vergogna e pudore (come hanno felicemente argomentato da punti di vista diversi Hegel, Scheler, Anders e Sartre tra gli altri) per giungere non solo a vestirsi (l’uomo deve in senso ampio e profondo accostumarsi e assumere abiti) e a coprirsi (o anche, in senso opposto, a denudarsi di tutto, compresa la corporeità – ascesi –, il Sé – mistica –, la vita stessa – suicidio –, ecc.), ma a fare dell’abbigliamento e delle pratiche di iscrizione corporea un mezzo espressivo se non di liberazione (non è un caso se la rivoluzione culturale femminile del novecento è passata anche attraverso l’affermazione della libertà di indossare la «minigonna», o se alcune delle forme espressive più comuni della contemporaneità sono piercings e tatoos), così come solo l’essere che è costretto (qui è soprattutto Plessner a fornire notevoli spunti) a prendere posizione può assumere non solo un ruolo ma più ruoli, essere persona e attore nel duplice senso dei termini (centro di atti e di affetti unico e irriducibile e maschera che ricopre ruoli recitando). Ciò significa, ed ecco che faccio un ulteriore passo, che solamente l’animale umano può fingere, può mascherarsi: come aveva notato Lacan, al massimo si può dire che un animale non umano finge, ma non è certo capace di fingere di fingere, non fa valere qualcosa di falso come se fosse vero, non è in grado di mascherare la verità con la falsità. L’animale non umano non può far trucchi, non può truccare, non può truccarsi. L’animale è naturale, l’uomo è artificiale, con un’estrema semplificazione: ma proprio per questo solo l’uomo può mascherarsi in modo «artificioso» ed «esagerato», può truccarsi e truccare. L’uomo deve esprimersi in maniera mediata e culturale, dunque quando colora e disegna il suo volto per esprimere se stesso, per manifestare i suoi lineamenti, per dare a intendere le sue intenzioni, ecc., sta manifestando e realizzando la sua essenza: proprio per questo può giungere a truccarsi in maniera «innaturale», cancellando il suo «vero» volto (o persino, con la chirurgia estetica, il suo intero corpo) e «marcando eccessivamente» i suoi lineamenti. In poche parole, se l’uomo finge è perché – letteralmente, secondo l’etimo latino – deve produrre e inventare le modalità del proprio stare al mondo, deve escogitare i mezzi di sussistenza e di realizzazione: l’uomo plasma sé e il proprio mondo, proprio per questo può mentire, solo chi intrattiene un rapporto con il mondo all’insegna della verità-falsità può raccontare o rappresentare menzogne e elaborare trucchi di ogni sorta.


Tutto è lecito nel trucco come in amore? Un lettore attento e sveglio potrebbe dire: bene, ma se il trucco appartiene addirittura all’essenza dell’uomo, alla sua natura, allora è «normale» truccare e truccarsi, è persino «giusto» farlo e ogni tipo di trucco è permesso? In altre parole: se Dio è morto, ogni trucco è permesso? Rispondo di no, per una ragione molto semplice, e lo faccio restando proprio al trucco del viso. Sarebbe facile dire che c’è sempre il vecchio caro «giusto mezzo», che – cioè – c’è pur sempre un limite a tutto, e che questo limite è però da verificare di situazione in situazione. Verissimo e banale, nel senso che è semplicemente vero, eppure non mi basta, perché voglio fare un passettino in più, voglio esplicitare una sorta di criterio di massima per stabilire di volta in volta il limite. È proprio quello dell’espressività: quando si trucca un volto non è questione di «(il)lecito» o di «(in)giusto», ma di capacità di portare a manifestazione ciò che «c’è sotto» (quando si dice «c’è il trucco» in realtà si intende proprio questo: «qualcosa sotto deve pur esserci»), ossia di es-primere compiutamente ciò che spinge al movimento e al processo di trucco e di realizzazione. Voglio dire: c’è qualcosa, una qualche tendenza, un qualche bisogno, una qualche «X» che spinge e motiva a truccarsi, il punto è allora quello di trovare – nuovamente – il modo più adatto, la conformazione più espressiva e fedele, la forma più bella perché più armonica rispetto a tale «X» (questo è il senso profondo della moda). Chi è il giudice? Nessuno giudica, non c’è spazio per giudizi, solo Dio giudica. Gli uomini valutano e sentono. Colui che si è truccato sentirà, retroflettendosi e riflettendo (come ho detto in apertura), se il modo con cui l’ha fatto è soddisfacente, come coloro che percepiscono sentiranno se tale operazione è in grado di esprimere qualcosa di comune e intersoggettivo, come il contesto in cui tale operazione si dispiega consegnerà un contorno di significati in grado di favorire o meno l’opportunità dell’operazione stessa, e così via. Una rappresentazione teatrale comprende certo l’attore principale, ma anche una compagnia di attori che recita insieme, e che lo fa su un palcoscenico dotato di una specifica scenografia, di fronte a un determinato pubblico. A mancare sono lo sceneggiatore e il regista occulto: la trama si tesse attraverso lo svolgimento e l’evoluzione della rappresentazione stessa…

11 commenti:

Ossimoro on 18 marzo 2011 alle ore 00:50 ha detto...

Non siate timidi, se non avete capito qualcosa o se avete delle curiosità, chiedete e vi sarà risposto! :-)

Penny on 19 marzo 2011 alle ore 19:16 ha detto...

Non ho ancora commentato perché ho avuto una settimana troppo di fuoco per leggere con calma questo bellissimo intervento. Ora finalmente mi posso dedicare ad una tranquilla lettura.
Intanto volevo ringraziare ancora Giacomo per un intervento davvero fantastico, che il nostro umile blogghino è onorato di ospitare :)

Anonimo ha detto...

Ci mancherebbe, anzi per me è un piacere, perché mettere alla prova concetti filosofici con la realtà è per quanto mi riguarda il modo migliore di sondarne la consistenza... E poi nemmeno la co-capo-blog che ha pubblicato il pippone ha commentato facendo furbescamente finta di nulla eh eh!

Anonimo ha detto...

Ci mancherebbe, anzi per me è un piacere, perché mettere alla prova concetti filosofici con la realtà è per quanto mi riguarda il modo migliore di sondarne la consistenza... E poi nemmeno la co-capo-blog che ha pubblicato il pippone ha commentato facendo furbescamente finta di nulla eh eh!

Marked (scusate il doppione)

Ossimoro on 21 marzo 2011 alle ore 23:54 ha detto...

Touchée! :-P
Dai, in effetti avevo una curiosità: l'ultima frase, quella con la metafora che lega il trucco al teatro, vuoi significare che il trucco è una "forma d'arte" meno giustificabile perchè manca, per così dire, del backstage, cioè perchè non c'è distinzione tra la sua realtà in potenza e in atto, insomma perchè non c'è un vero e proprio "passaggio creativo" tra quando un trucco viene pensato e quando si trasforma realtà?
Se è quello che intendevi (sono ignorante, perdonami, potrei sbagliarmi) in effetti non condivido del tutto. Non vorrei essere tacciata di eresia, ma per me un trucco particolarmente creativo e pensato (penso per esempio a quello portato da Natalie Portman in Black Swan o alle mascelle posticce di Marlon Brando nel Padrino) può contenere più significato di un "taglio" di Fontana...

Anonimo ha detto...

Rispondo con calma appena riesco, in ogni caso i) quella metafora legava il trucco alla vita perché legava il teatro alla vita; ii) povero Fontana e soci sono troppo spesso bistrattati perché non compresi, questo è un discorso enorme ma cerco di tornarci a breve. Questione tecnica: mi pare che in home non si riesca a vedere un elenco degli ultimi commenti, questo rende scomodissima la fruizione, se c'è io non la vedo...

Marked

Ossimoro on 22 marzo 2011 alle ore 12:45 ha detto...

Ciao caro! In effetti nella home non c'è, io li vedo dalle pagine dell'amministrazione andando direttamente su commenti. Non penso ci sia modo di vederli da follower, credo sia un problema di blogger, purtroppo non è colpa nostra. In effetti se fosse concepito come un forum sarebbe molto meglio...
Su Fontana, guarda...io sono abbastanza appassionata di arte contemporanea, ho letto anche di recente "lo potevo fare anch'io"di Francesco Bonami, un'interessante difesa dell'arte contemporanea. Ragion per cui so che conta l'intenzione, il gesto di rottura, come la fontana-orinatoio di Duchamp e che sta gente avrebbe saputo fare benissimo anche la Cappella Sistina, ma ha SCELTO di non farla. Però resta il fatto che, pur amando per esempio Cattelan, Fontana mi stia proprio sull'anima, non c'è niente da fare! Mi comunica molto poco, per quanto possa apprezzare il suo gesto di rottura col passato...

Anonimo ha detto...

Se volete però seguito dovete farvelo modificare, sennò uno non sa mai quali sono gli ultimi commenti e i post vecchi, dato anche quanto pubblichi, sono presto nel dimenticatoio...

Detto ciò, cerco di essere breve ma spero incisivo.

i) non penso nel trucco non ci sia passaggio creativo dalla potenza all'atto, quello - anche se la questione è assia più delicata per certi versi - appartiene in quanto tale all'agire umano (proprio per le ragioni cui accenno in quelle righe peraltro: l'animale non ha rappresentazione che media tra coscienza e azione, l'uomo prima di fare una cosa pensa a come-cosa-perché-dove-ecc. farla). Ossia: anche un killer pensa e poi agisce, anche prima di cucinare un piatto di pasta in bianco pensiamo ecc. Poi, certo, si può istituire qualcosa come una 'gerarchia' a partire da quanto e con quale intensità si pensa a ciò che si fa, a partire da quale formazione e da quale conoscenza ecc., e certo la differenza tra un pezzo di Britney Spears e una composizione di Allevi è questa. Ma non mi interessava tanto questo in quanto scrivevo. Piuttosto, il punto era molto più semplicemente: la vita è una rappresentazione scenica, non nel senso del "la vita è un sogno" (incubo o non incubo che sia poi), ma nel senso che esiste una scenografia, degli attori che occupano insieme la scena, e un pubblico che assiste. Il trucco è (il)lecito e (in)giusto? Questa era la domanda che mi ponevo, per rispondere che non è la domanda da porre. Perché il 'criterio' è l'espressività, e l'espressività è qualcosa di relazionale, vale a dire che chiama in causa tanto la "x" che anima chi si trucca, quanto gli occhi di chi osservano, quanto l'insieme del contesto e della situazione (esempio banale immediato: a un funerale presentarsi truccati come a un matrimonio risulta letteralmente 'fuori luogo'). Tutto qui. Senza regista occulto o senza sceneggiatura, ossia senza Dio e piani prefissati che dicono cosa e come dire-agire: se Dio giudica gli uomini sentono e valutano, ossia percepiscono l'adeguatezza dello svolgimento della trama nell'atto di farla. Tradotto per il trucco: non è che un trucco prima di essere fatto è giusto o meno, esagerato o meno (c'è lo spazio per una critica qui, ma in realtà già all'inizio di quanto scrissi premessi in che senso parlavo di 'dopo' e 'prima'), non è sottoponibile a giudizio in tal senso.
Era dunque qualcosa di molto più banale, e qui non spiegato bene ma già sto scrivendo troppo.

Anonimo ha detto...

ii) Fontana&C: ripeto che non mi interessa entrare in gerarchie, perché lì la questione si fa articolata, è certo una questione interessante, perché in realtà è la questione fondamentale del nostro tempo. Diciamo che c'è quello che dici, ma è ancora più importante la radice di quel che dici: cosa vuoldire che conta l'intenzione del gesto di rottura? Sfato subito un mito: mi sembra falsissimo che avrebbero potuto fare la cappella sistina, non è assolutamente vero, non hanno certo quella 'maestria tecnica', o perlomeno hanno un tipo diverso di 'maestria tecnica'. Dunque non è su questo piano che si può o meno difendere l'arte contemporanea (di qualche decennio fa peraltro in realtà, ma se si vede il tipo che fa le copertine di "Life" con photoshop in effetti ci può ancora stare come riferimento). Anzi, entrare su questo piano significa accettare confronti con la definizione 'tradizionale' (parola orribile, ma per il momento va bene) di arte e mettersi a dialogare nei suoi termini e con le sue categorie. Un confronto perso in partenza. Non mi interessa nemmeno tanto parlare di 'poetica' di 'linguaggio artistico', della specifità artistica del taglio di Fontana, che ovviamente c'è (creazione della forma, rapporto tra spazi, obliterazione del colore, ecc.), ma il punto a me pare concettuale. Croce traducendo Hegel parlava della "morte" dell'arte, superata in merito alla sua rappresentatività, soprattutto dalla filosofia oltreche dalla religione. Il punto è che si può credere che l'arte sia morta perché non è più in grado di rappresentare l'assoluto, tanto che oggi si parla di fine dell'arte classica morte dell'arte ecc. (ovviamente solo in ambienti non artistici e per lo più ignoranti, detto con estremismo).
Che parola traduceva Croce con "morte"? Aufhebung. Non voglio farla lunga sulla parola, il punto è molto semplicemente: la morte dell'arte è un Aufhebung dell'arte, che la libera da una forma precedente per aprirla a una nuova forma.
Dunque l'arte che muore prende nuova forma, ed è la forma della liberazione: la liberazione dell'individuo, del gesto creativo individuale, assolutamente concettuale (dunque ecco perché con Hegel si può dire che la filosofia è la morte dell'arte, la sua Aufhebung). Oltretutto tutto questo discorso va collegato alle modalità di produzione degli ultimi due secoli, sia chiaro, sennò si parla di un bel nulla.
Ma il punto che qui volevo sottolineare è proprio questo: Fontana è la liberazione dell'arte, è l'arte giunta a un supremo grado di libertà, Fontana è esponenzialmente più artista di Michelangelo perché può in maniera eminente prescindere dall'elemento materiale (evidentemente non può del tutto, chiaro, non vorrei essere frainteso) e dalla capacità tecnica realizzativa.
E' pura idea, puro spirito. Molto semplicemente, troppo, e detto troppo male ma sono di fretta sorry!

Marked

Ossimoro on 22 marzo 2011 alle ore 21:16 ha detto...

E meno male che eri di fretta!!!:-D
E così Fontana filosoficamente è più "reine" di Michelangelo! Bah, avrai ragione tu...
Sono in fase digestiva (sono andata a mangiare da Eataly, vivamente consigliato a tutti i torinesi che ancora non ci sono stati!), quindi per ora non connetto, comunque grazie della lunga risposta! :-)

Marked on 11 aprile 2011 alle ore 14:20 ha detto...

Vuoi la guerra di spam? Non mi tiro indietro eh eh! Comunque faccio il cattivello e ti dico che ci stai mettendo una vita a riprenderti da Eataly ah ah... Questo post risulta tra i più popolari solo per i miei autocommenti, continuerò per sempre a farlo stare in alto in classifica, mefistofelico

 

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